L’ autunno è una stagione dolce per Venezia, anche quest’ autunno, pur con l’acqua alta, lo è particolarmente. Ho alle spalle la pennellata densa e potente del Tintoretto, gli occhi e la testa colmi dei bruni, dei colori scuri di tragedia dei grandi teleri, ma anche dei volti di popolo, delle donne così piene di pensieri terreni e spirito vitale. Il campo dei Frari si apre davanti alla Scuola di san Rocco, e c’è un bar all’angolo dove fanno un buon caffè. Nel bookshop, tra le cataste di libri e gadgets su Tintoretto e gli altri pittori della Scuola, ho visto un libro sui cappuccini a Venezia. Parole garbate per una passeggiata tra caffè, chiese, luoghi descritti con il filo dei bar e del cappuccino, bevanda preferita dagli stranieri, ma amata dagli italiani per la sua capacità di rassicurare. Era sotto un libro dedicato alla Venezia immaginifica di D’Annunzio, altre parole, febbrili, violente d’immagini, destinate a mutare tutto ciò che toccano. D’Annunzio mi attrae e respinge, forse è l’eccesso che lo allontana dal fascino delle parole gonfie, come fosse lui stesso a spingere indietro gli altri, per far posto, per lasciare una scia aperta in mezzo alla folla in cui passare solo. Il caffè è buono, ma sbrigativo, troppe persone e pochi posti a sedere. Confusione: meglio una panchina.
Le panchine a Venezia sono poche e molto usate, sia dai turisti che dai veneziani, entrambi le dividono come posti di riposo, i veneziani c’ aggiungono la ciàcola, fitta e sommessa come un merletto. “Tajare tabàri” era un’espressione che sentivo da mia nonna, e significava il parlar male di qualcuno, anche dicendo la verità, mettendola in piazza, porre cioè in vista ciò che stava sotto, il tabarro, per l’appunto. Mia nonna aveva parenti al Lido. Come fossero finiti lì non l’ho mai saputo. Di certo non era stato per andare al Grand Hotel Des Bains. Lei, assieme alla sorella o alla nipote, oppure anche da sola, almeno una volta all’anno veniva a Venezia. Se vogliamo andare con lei bisogna seguire un percorso veneziano di metà novecento, con molta strada a piedi. E’ stata mia nonna che mi ha insegnato ad amare, a trarre piacere dal camminare, gran parte delle cose e dei luoghi che frequentavamo assieme li raggiungevamo camminando. E parlando. Io la interrogavo e lei rispondeva volentieri, con un dialetto così dolce e calmo che mi quietava, mi entrava dentro. Anche la sera quando mi prendeva la malinconia perché mia madre non era ancora tornata dal lavoro, lei mi consolava, e la sua voce mi seguiva in un piccolo sonno, dopo la cena assieme, che avrebbe asciugato le lacrime e m’avrebbe svegliato con la mamma finalmente arrivata. La nonna arrivava a Venezia in treno, in quelle belle carrozze di terza classe con i sedili in legno e lo scompartimento unico. Nell’imbarcadero davanti a San Simeon Grande c’era la prima scelta: vaporetto o a piedi fino a San Marco e poi vaporetto per il Lido? Spesso andava a piedi, e gli itinerari convergevano su Rialto, tra calli e artigiani che lavoravano all’esterno delle case, un riposo su una panchina se non c’era molta fretta e poi di nuovo tra calli e ponti, perdendosi appena, per avere un leggero smarrimento fino a trovare nuovamente la strada. Era una Venezia quasi senza colore, con molte donne vestite di scuro, bàcari nelle calli e fritolini nei campielli, pieni di uomini, cichèti, spunciòni, molti bambini, molte voci, molto rumore. Credo che uno degli zii lavorasse all’Arsenale, ma anche questo abitava al Lido, e mia nonna prendeva il vaporetto per raggiungerlo da San Marco. Non conosco i percorsi nelle strade decò, tra le ville liberty del Lido, certo fu che quelle passeggiate si spensero presto con le morti premature di quegli anni, sostituite dall’andare all’Isola dei Morti.
Il rapporto della nonna con Venezia era un rapporto di persone, forse per questo nei miei pelegrinari quando arrivo alla fermata dell’Angelo, dietro all’Arsenale, in quella riva che guarda Murano, così piena di case popolari e di sole, di persone che abitano e che lavorano chissà dove, ma sono veneziani davvero, penso che andare da un posto all’altro significa vedere, portar dentro la bellezza che c’è attorno, ma soprattutto incontrare persone. E parlare di poco o nulla che davvero resti, se non il senso di calore che procura un incontro. La nonna badava a quello, non pensava molto ad altro, credo che lei della città vedesse i percorsi, qualche chiesa in cui sostare, le persone. A dire il vero, capisco ora che sto camminando e che procedo negli anni, che non ho ricordi di ciò che si dicevano tra loro i parenti quando s’ incontravano. Ricordo i convenevoli, ma mi manca la sostanza dei discorsi. Eppure parlavano, molto e a lungo. Credo dovremmo curiosare di più da bambini, avere gli argomenti del tempo, sapere cos’era importante o banale per chi ti era molto vicino.
Una sensazione che avvertivo era quella di un arcaico trattamento delle cose della vita. Non c’era che la mediazione dell’educazione acui si teneva molto in casa, ma le loro gioie erano gioie vere, le risate piene, i dolori assoluti. Ho ricordi delle une e degli altri, credo siano stati per me un’apertura su un mondo che stava scomparendo, dove gli affetti erano primari, molecole assolute di sentimenti, forse l’unico modo per uscire dalla costrizione di ambienti che prevedevano la coesistenza della continuità delle famiglie e della precarietàdei tempi. Che consideravano con rassegnazione dissesti assoluti, incontrati dalle vite in conseguenza di guerre e migrazioni e rovesci economici. E le fortune, le piccole crescite che si inserivano in un vivere fatto di abitudini, di piccole cose, vivevano nell’ apertura a ciò che accadeva, considerate con la modestia e la sufficienza dello star meglio. Qualcosa da conservare ed al tempo stesso da considerare come un tratto raggiunto, transitorio, e non assoluto. In un senso o nell’altro e perciò prezioso.
Mentre cammino lungo la riva priva di turisti capisco il privilegio d’aver vissuto in un secolo ricco di passioni e di eventi che avevano toccato la famiglia, erano entrati ed avevano lasciato traccia, ma pur visti e vissuti era stato l’elemento umano che aveva fatto da filo conduttore ed aveva tenuto assieme. Alla fine, perdendo cose, averi, affetti, erano rimaste le persone, e queste si erano misurate su di sé prima che col mondo, perché questo, comunque, veniva dopo di esse. Al contrario di molti vecchi che si chiudono in casa, che sopportano con difficoltà la perdita della gioventù e scivolano nel livore progressivo del rifiuto di tutto ciò che è nuovo, le mie donne, mia madre e mia nonna, diversamente, avevano continuato a vivere nel mondo e ad entusiasmarsi per esso.
Continua quando si potrà…